La fabbrica della bellezza. Ediz. italiana e francese (Multilingue) Copertina flessibile

La fabbrica della bellezza. Ediz. italiana e francese (Multilingue) Copertina flessibile – 31 gennaio 2017

di Paolo Ambrosio (Autore)

 

 

In copertina:

  1. Paolo Ambrosio, Architetture senza tempo, 1992- 0634

          Mixed media on canvas+carta +forex  cm. 35×25

 

 

PRIMA PUNTATA

 

Con la ricerca della Bellezza possiamo creare “La magia pratica dell’arte” come diceva D’Annunzio di Pascoli, il sentimento e la visione del mondo delimitato e ristretto com’era in Myricae con la poetica delle cose semplici e modeste di tono piccolo borghese.

Oppure secondo Eugenio Montale: da un lato vi è un delirio del tempo immobile che inchioda l’uomo e le cose al loro posto, dall’altro l’atemporalità ci dà speranza che nella rete dell’esistenza vi sia una maglia rotta della catena del significante per trovare una via di fuga.

La via di fuga quindi come scelta, nell’impossibilità di penetrare il “nulla” come segreto del mondo, è di diventare come “l’osso di seppia” di Montale defilandosi in mezzo alle cose, sballottati dalle onde e scomparire lentamente oppure, nel nulla, fare appello alla speranza e riemergere.

Riemergere con l’arte che, come nel sogno, mette un legame agli inconsci. L’opera esiste per creare un luogo votato al ritrovo con l’inconscio sotto la sorveglianza dell’Altro come benevolo garante dell’interdizione nel risorgere della Cosa che non può apparire se non mediata dalla sublimazione. Nell’etica della psicoanalisi l’estetica del vuoto considera la dimensione dell’arte in relazione col reale più che con il simbolico.

Lo psicoanalista Jacques Lacan riprende il termine del Maestro Eckhart, teologo, filosofo tedesco (1260-1328) che impiega das Ding per parlare dell’anima.  La Cosa  (das Ding) est l’objet le plus profond désigné par l’angoisse, elle est innommable, du côté du réel. « Das Ding, c’est ce autour de quoi s’oriente tout le cheminement du sujet par rapport au monde de ses désirs».[1] La Cosa è ciò che si presenta e si isola come termine estraneo attorno a cui si orienta e ruota tutto il movimento della immaginazione e dei desideri. E’ distanza essenziale tra l’opera d’arte e il vuoto che essa organizza e circoscrive. Il principio del piacere governa il cammino, e nell’allegoria di oltre le bianche grandi lenzuola stese al sole, trova una presenza lì presso.

Con J. Lacan consideriamo una relazione tra psicoanalisi e pratica artistica in quanto entrambe sono pratiche simboliche che tendono a trattare il reale della Cosa.

Il reale insieme all’immaginario e al simbolico è una delle tre dimensioni della struttura o esistenza del soggetto che J. Lacan ha immesso nel suo insegnamento nel 1953 prendendolo in prestito dalla lettura freudiana. Il reale è distinto dalla realtà materiale che invece è legata a un discorso dominante avendo un legame sociale nella comunicazione fra simili. Il reale lacaniano si definisce dal limite del sapere e designa una realtà fenomenica immanente alla rappresentazione e impossibile da simbolizzare. Non si può quindi afferrare a differenza della realtà ma piuttosto si può circoscrivere, accerchiare, chiedendo prestito alla logica. Il reale è, l’impossibile a dire, è ciò che può avere luogo ma non essere previsto ne preavvertito, è ingovernabile.

Lacan s’interroga sul come in una pratica artistica si possa velare il reale.

Secondo l’estetica psicoanalitica di Lacan, le opere d’arte imitano gli oggetti che rappresentano, ma il loro fine non è di rappresentarli ma di far affiorare l’emozione, appassionare, avvincere. Nel dare un’imitazione dell’oggetto rappresentato, non in rapporto con la natura, ma con il vuoto della Cosa le opere fanno di quest’oggetto un involucro, cioè qualcosa che rivela. L’oggetto che rimane liberato dalla sua funzione d’uso costeggia e fiancheggia la Cosa ed è prima spia e poi il rivelatore della stessa. L’arte quindi appare come una possibile organizzazione atta a circoscrivere il vuoto irrapresentabile della Cosa che è “hors signifié”.

Le opere non fanno quindi che fingere di imitare. “L’oggetto s’instaura in un certo rapporto con la Cosa, fatto al tempo stesso per circoscrivere, per presentificare e per assentificare”.[2] Più l’oggetto è presentificato, e quindi imitato, più l’illusione si dissolve e abbiamo così una rinnovata dignità dell’oggetto.

L’opera imita l’oggetto per farne affiorare un senso straordinario che eccede il limite del comune. Quest’oggetto immaginario non è tanto in rapporto con l’oggetto di natura ma, come abbiamo detto, con il vuoto della Cosa. Ciò che si rivela, nell’illusione dell’imitazione rappresentativa, sottrae l’oggetto a quanto più oggettivamente costituisce il supporto dell’attività conoscitiva e lo rigenera, provocando una condizione nuova, elevandone la dignità e il privilegio.

Morandi e Cezanne non si sono limitati a fare una mimesi dell’oggetto ma hanno assunto la funzione di traghettatore, “Passator cortese” trasponendo inconsapevolmente il sentimento sull’altra riva, essendo loro medium tra il reale della Cosa e il registro simbolico del significante.

Nella Cosa, che attira (aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio, D’annunzio) l’oggetto che possiamo immaginare come oggetto materiale impolverato (velato) è più Cosa che oggetto. L’oggetto, in posizione borderline, cioè al di qua o di là del linguaggio tra svelato e nascosto, segna un silenzio e un limite come riva (noi ricidemmo il cerchio all’altra riva, Dante) di un approdo significante. La sublimazione (attraverso la quale passa il trattamento estetico della Cosa) con la trasformazione degli impulsi primitivi rinnova appunto la percezione del soggetto. Essa è il contraltare della rimozione (in psicoanalisi) processo che invece tende a respingere un certo contenuto psichico sino a renderlo innocuo.

Nel 1905 Sigmund Freud aveva concettualizzato il termine sublimazione per rendere conto di un tipo particolare di attività umana -creazione artistica, letteraria, intellettuale- senza rapporto apparente con la sessualità ma prendendo la sua forza dalla pulsione sessuale che si trasferisce verso uno scopo non sessuale caricando di energia oggetti socialmente valorizzati. La trasformazione degli impulsi primitivi e il loro volgersi a mete socialmente accettabili.

Il processo estetico agisce sull’insieme dei protagonisti che condividono l’effetto di esultanza che procura la vicinanza della Cosa, e come dice Lacan: «La Cosa si situa  nel rapporto che pone l’uomo in funzione di termine medio tra il reale e il significante. Questa Cosa, di cui, tutte le forme, create dall’uomo, è del registro della sublimazione, sarà sempre rappresentata dal vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualcos’altro – o, più esattamente, per il fatto di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro-. In ogni forma di sublimazione il vuoto sarà determinativo.»[3]

La Cosa non ha orientamento figurativo o astratto perché fuori significato ed a fianco del reale, dell’innominabile e dell’imprevedibile.  «La Cosa non è solo la Cosa come vuoto localizzato nel vaso secondo una metafora di Heidegger (metafora che Heidegger stesso reperisce su Tao te Ching). L’essere della Cosa freudiana ripresa da Lacan, non è solo (heideggerianemente) ciò che marca il limite della rappresentazione. E’ questo, se si vuole il carattere ermeneutico della Cosa, la sua eccentricità irriducibile rispetto alle immagini e al significante. In realtà il volto più scabroso della Cosa non è quello dell’irrapresentabile, non è quello (heideggeriano) del vuoto come custode della differenza ontologica della Cosa dall’ente, non è ciò che sfugge alla rappresentazione (di ciò che non è un ente), ma quello di un vuoto che diviene vortice, “zona d’incandescenza” abisso che aspira, eccesso di godimento, orrore, caos terrificante».[4] Vuoto centrifugante, un posto particolare, imprendibile, il più prossimo ad una pulsazione di energia scaturente senza alcun condizionamento preliminare, una vertigine angosciante.

L’agire del soggetto si orienta per organizzare la sua storia, in un percorso di controllo e di riferimento rispetto al mondo dei suoi desideri. Sperimenta che nella ricerca della propria soddisfazione c’è qualcosa di utile sulla strada degli auspici e attese per arrivare alla Cosa.

Lacan ci consente di prendere le distanze  dalle comuni espressioni artistiche e di interrogarci sul qual’è il fine dell’arte. Nel dubbio se l’arte è imitare o non imitare o se l’arte imita quello che rappresenta si entra in un’impasse tra arte figurativa e arte astratta dalla quale è difficile uscire.

Questa impasse è intrigante perciò analizziamo “Elogio dell’Astrattismo” di L.P.Finizio  per chiederci quali sono i valori e i limiti nella definizione estetica  dell’astrattismo.  Nello scritto troviamo una condizione indefinita dell’estetica poichè il teoretico Kandinsky immaginava che potesse esserci dell’altro valore quando parlava di una «costruzione occulta comunicante anche in chiave di psicologia del profondo secondo un ordine nascosto, che alberga nell’indistinto, nel caos comune di conscio e inconscio delle dinamiche creative dell’arte». Anche con Malevič abbiamo un pensiero rivolto a un’estetica dissimile in quanto alla denominazione di “arte astratta”, preferì quella di «arte non oggettiva, pittura appunto, in cui il margine oltre il visibile si dilata senza limiti scavalcando ogni mediazione d’astrazione nella meta-fisica traiettoria dei pensieri. La poetica del suprematismo ha offerto, così, un salto oltre le apparenze assegnando alle forme visibili dell’astrattismo un virtuoso viatico per chi ama guardare più con la mente che con gli occhi.»[5].

Pensieri in quanto facoltà relative alla formazione di contenuti mentali, di considerazione, di attenzione e immaginazione come  simbolo di  irrealtà, inconsistenza, improbabilità. Entrambi gli artisti, Kandinsky, Malevič, pur nel loro grande spessore storico, lasciando in sospeso l’indagine filosofica per definire il fenomeno artistico, erano come in attesa di un processo per ottenere un risultato ulteriore da allacciare a una serie complessa di elementi idonei a prendere contatto col “nemico”.

Possibilità che possiamo argomentare  con riferimento all’arte da parte di Freud e Lacan i quali non hanno avuto un’interesse fondamentale per l’estetica preferendone l’etica della psicoanalisi. «L’interesse di Lacan a partire dal Seminario VII si sposta però decisamente impegnando l’Arte nella sua relazione col reale ( più che col simbolico nella combinazione tra significanti e significato come avviena nella poesia), modo differente per definire psicoanaliticamente l’essenza dell’opera d’arte. Cioè uno schema che implica tre declinazioni di godimento tre archetipi del reale pulsionale. L’estetica del vuoto, l’estetica anamorfica, l’estetica della lettera. Tre modi diversi che interessano Lacan per raggiungere una definizione essenziale di che cos’è un opera d’arte. La definizione di arte come organizzazione del vuoto pone in evidenza la svolta radicale che Lacan impone alla cosidetta psicoanalisi applicata all’arte, facendola virare inusitatamente in direzione di una psicoanalisi implicata all’arte.  Nella definizione dell’arte come “organizzazione del vuoto” -non si tratta di considerare la creazione artistica nel suo rapporto col fantasma dell’artista- ma di cogliere cosa l’arte può insegnare alla psicoanalisi sulla natura del suo stesso oggetto. Un’estetica lacaniana implica come suo preliminare necessario il superamento di ogni versione patografica dell’opera e di ogni concezione riduttivamente applicativa della psicoanalisi: un’estetica lacaniana non applica la psicoanalisi all’arte, quanto piuttosto prova a pensare all’arte come un insegnamento per la psicoanalisi». [6]

[1]   J. Lacan, Il seminario, libro VII, l’etica della psicoanalisi, Einaudi 2008, p. 61

[2]  J. Lacan, ibid, p. 167

[3]  J. Lacan, ibid, p. 154

[4]  M. Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, The Symtom online journal of Lacan, 2004, p.2, 2004. Cit. ibid, Come ha segnalato J.A. Miller il paradigma del godimento che qui è applicato è quello del godimento come al di là del significante, del godimento come, appunto, reale della Cosa, la cui aria, afferma Lacan, risulta “psichicamente irrespirabile”. Cfr. J.A. Miller I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001

[5]  L.P. Finizio, Elogio dell’astrattismo, Mimesis Milano 2012 p.11, 40.

[6]  M. Recalcati, ibid, p.1, 2004.

IN FRANCESE

Avec la recherche de la beauté, nous pouvons, comme disait D’Annunzio di Pascoli, créer « La magie pratique de l’art », le sentiment et la vision d’un monde  délimité et restreint, comme il l’était en Myricae avec la poétique des choses simples et modestes dans le goût  petit bourgeois.

Ou bien, pour Eugenio Montale: il y a, d’un côté un délire du temps immobile qui cloue et immobilise l’homme et les choses à leur place, de l’autre l’atemporalité nous donne l’espérance que dans le filet de l’existence il y a une maille rompue dans la chaîne des signifiants pour trouver une voie de fuite.

Donc, la voie de fuite, dans l’impossibilité de pénétrer le  «rien» comme secret du monde, est de faire comme «L’osso di seppia» (L’os de seiche) de Montale défilant au milieu des choses, ballotté par l’onde et disparaissant lentement ou bien, dans le néant, faire appel à l’espérance de remonter à la surface.

Emerger à nouveau avec l’art qui, comme le rêve, fait lien avec l’inconscient. L’oeuvre existe pour créer un lieu voué aux retrouvailles avec l’inconscient sous la surveillance de l’Autre comme garant bénévole de l’interdiction de la renaissance de la Chose qui ne peut apparaître que voilée par la sublimation. Dans le Séminaire L’éthique de la psychanalyse, le psychanalyste Jacques Lacan considère la dimension de l’art en relation avec le réel plus qu’ avec le symbolique.

Il reprend le terme de Maître Eckhart, théologien, philosophe allemand (1260 – 1328) qui emploie la Chose pour parer de l’âme. La chose (Das Ding) est l’objet le plus profond désigné par l’angoisse, elle est innommable, du côté du réel. « Das Ding, c’est autour de quoi s’oriente tout le cheminement du sujet par rapport au monde de ses désirs ».[1] La Chose est ce qui se présente et s’isole comme terme étranger autour duquel tourne et s’oriente tout le mouvement de l’imagination et des désirs. C’est une distance essentielle entre l’œuvre d’art et le vide qu’elle organise et circonscrit. Le principe de plaisir gouverne le chemin et dans l’allégorie de l’au-delà des grands draps blancs étendus au soleil, trouve une présence ici  toute proche.
Avec J. Lacan, nous prenons en considération la relation entre la psychanalyse et la pratique artistique, du fait que les deux sont des pratiques symboliques qui tendent à traiter le réel et la Chose.

Le réel, avec l’imaginaire et  le symbolique, est un des trois registres du sujet introduit par Lacan a introduit dans son enseignement en 1953, en l’empruntant à la lecture freudienne. Le réel est distinct de la réalité matérielle liée à un discours dominant ayant un lien social dans la communication entre semblables. Le réel lacanien se définit par la limite du savoir et désigne un phénomène immanent à la représentation et impossible à symboliser. On ne peut pas saisir  la réalité, mais plutôt on peut circonscrire, encercler, faisant appel à la logique. Le réel est l’impossible à dire, c’est cependant ce qui peut avoir un lieu, mais ne peut pas être prévu, ni prévenu, et qui est ingouvernable.

Lacan s’interroge : comment dans une pratique artistique on peut voiler le réel ?
Selon la conception psychanalytique de l’esthétique, d’après Lacan, les œuvres d’art imitent les objets qu’elles représentent, mais  leur finalité n’est pas de les représenter, mais de faire émerger l’émotion, passionnér, captiver. En donnant une imitation de l’objet présenté, non pas en rapport avec la nature, mais avec le vide de la Chose, les œuvres font de cet objet, un emballage révélateur.  L’objet, libéré de sa fonction d’usage, côtoie le bord de la Chose et la révèle au-delà d’elle-même en étant le premier indicateur et puis le révélateur. Ensuite l’art apparaît comme une organisation possible apte à circonscrire le vide irreprésentable de la Chose «L’objet est instauré dans un certain rapport avec la Chose, qui est fait à la fois pour cerner, pour présentifier et pour absentifier».[2] Plus l’objet est présentifié, et donc imité, plus l’illusion se dissout et nous avons ainsi un renouvellement de la dignité de l’objet. L’œuvre imite l’objet pour en faire apparaître un sens extraordinaire qui dépasse les limites du commun. Cet objet imaginaire n’est pas tant en rapport avec l’objet nature qu’avec le vide de la Chose. Ce qui se révèle, dans l’illusion de l’imitation représentative, détourne l’objet de ce qui objectivement, constitue le support de l’activité cognitive et la régénère, provoquant une condition nouvelle, en l’ élevant à la dignité et au privilège.

Morandi et Cézanne ne se sont pas limités à faire une imitation de l’objet mais ils ont endossé la fonction de passeur, «Passeur courtois» transposant inconsciemment le sentiment sur l’autre rive, en étant  médium entre le réel de la Chose et le registre symbolique du signifiant.

Dans la Chose, qui attire (aspire avec délice la subtile odeur de l’héliotrope, D’Annunzio ) l’objet que nous pouvons imaginer comme objet matériel empoussiéré (voilé) est plus Chose qu’objet. L’objet, en position borderline, c’est–à-dire en-deçà ou au-delà du langage entre dévoilé et caché, marque un silence et une limite comme rive « noi ricidemmo il cerchio all’altra riva. Dante » point d’abordage signifiant. La sublimation (à travers laquelle passe le traitement esthétique de la Chose)  avec la transformation des impulsions primitives rénove précisément la perception du sujet. Elle s’oppose au refoulement (en psychanalyse, c’est un processus qui au contraire tend à repousser un certain contenu psychique dans le but de le rendre innoffensif)

En 1905 Sigmund Freud avait conceptualisé le terme de sublimation pour rendre compte d’un type particulier d’activité humaine –création artistique, littéraire, intellectuelle– sans rapport apparent avec la sexualité mais prenant sa force de la pulsion sexuelle qui se transfère vers un but non sexuel chargeant en énergie des objets socialement valorisés. La transformation des pulsions primitives et  leur retournement dans des actions socialement acceptables.

Le processus esthétique agit sur l’ensemble des protagonistes qui partagent l’effet d’exultation procuré par l’approche de la Chose, Lacan prend l’exemple schématique du vase pour permettre de saisir où se situe la Chose: «dans le rapport qui met l’homme en fonction de médium entre le réel et le signifiant. Cette Chose, dont toutes les formes crées par l’homme sont du registre de la sublimation, sera toujours représentée par un vide, précisément en ceci qu’elle ne peut pas être représentée par autre chose – ou plus exactement, qu’elle ne peut qu’être représentée par autre chose. Mais dans toute forme de sublimation, le vide sera déterminatif».[3]

La Chose n’a pas une orientation figurative ou abstraite parce qu’elle est en dehors du signifiant du côté du réel, de l’innomable et de l’imprévisible: «La Chose n’est pas seulement la Chose comme vide localisé dans le second vase selon la métaphore d’Heidegger (métaphore qu’Heideger lui-même repère dans le  Tao te Ching): L’être de la Chose freudienne, reprise par Lacan, n’est pas seulement, selon Heidegger, ce qui marque la limite de la représentation. C’est cela, si se veut le caractère herméneutique de la Chose, son excentricité irréductible par rapport aux images et au signifiant. En réalité l’expression  la plus scabreuse de la Chose n’est pas celui de l’irreprésentable, n’est pas celui (selon Heidegger) du vide comme gardien de la différence ontologique de la Chose de l’être, n’est pas ce qui évite la représentation (de ce qui n’est pas un être) mais ce qui d’un vide devient un tourbillon, “zone d’incandescence”, abysse qui aspire, excès de jouissance, horreur, chaos terrifiant».[4] Un vide centrifuge, un lieu particulier imprenable, le plus proche d’une pulsation d’énergie jaillissante, sans aucun conditionnement préliminaire, un vertige angoissant.

La conduite du sujet s’oriente pour organiser son histoire, dans un parcours de contrôle et de références par rapport au monde de ses désirs. Il expérimente le fait que dans la recherche de sa propre satisfaction, sur la route des auspices et des attentes pour arriver à la Chose. Lacan consent à la nécessité pour nous, de prendre les distances avec les expressions artistiques communes et de nous interroger sur ce qu’est la finalité de l’art. Dans le doute, si l’art revient à imiter ou ne pas imiter, ou si l’art imite ce qu’il représente, il entre dans une impasse ente l’art figuratif et l’art abstrait de laquelle il est difficile de sortir.

Cette impasse est curieuse, aussi analysons «L’éloge de l’abstraction» de L. P. Finizio pour nous rappeler quelles sont les valeurs et les limites de la définition esthétique de l’abstraction. Dans cet écrit nous trouvons une condition indéfinie de l’esthétique comme le théoricien Kandinsky imaginait qu’il pouvait nous apporter une autre valeur quand il parlait d’une «construction occulte donnant les clés de la psychanalyse des profondeurs selon un ordre caché, logeant dans l’indistinct, dans le chaos commun du conscient et de l’inconscient dans la dynamique de la création de l’art».  Aussi avec Malévic notre pensée se tourne vers une esthétique dissemblable  en tant que, à la dénomination de “art abstrait”, il préfèra celle de «art non objectif, peinture dans laquelle le contour au-delà du visible se dilate sans limites dèpassant chaque médiation d’abstraction dans la trajectoire métaphysique des pensées. La poétique du suprématisme  a offert, ainsi, un saut outre les apparences attribuées aux formes visibles de l’abstraction, un viatique pour qui aime regarder plus avec l’esprit  qu’avec les yeux».[5]

Pensées en tant que faculté relative à la formation des contenus mentaux, des considérations de l’attention et de l’imagination communes symbole de l’iréel inconsistance, improbabilité. Aussi bien Kandinski que Malévich malgré leur grande épaisseur théorique, laissant en suspens l’enquête philosophique pour définir le phénomène artistique, étaient en attente d’un processus pour obtenir un résultat qui consiste à lier à une série complexe d’éléments appropriés à prendre contact avec   “ l’ennemi “.

Possibilité que nous pouvons argumenter en nous référant à la reflexion de Freud et de Lacan au sujet de l’art, ils n’ont pas eu un intérêt fondamental pour l’esthétique, préférant s’intéresser à l’éthique de la psychanalyse: «L’intérét de Lacan à partir du Sèminarie VII se déplace, en  engageant l’art dans sa relation avec le reél (plus qu’au symbolique dans la combinatoire entre signifiant et signifié comme dans la poésie), mode différent pour définir par la psychanalyse, l’essence de l’oeuvre d’art. C’est-à-dire un schéma qui  implique trois déclinaisons de jouissance, trois archétypes du  réel pulsionnel. L’esthétique du vide,  l’esthétique anamorfique, l’esthétique de la lettre. Trois modes divers qui intéressaient Lacan pour rejoindre une définition essentielle de ce qu’est une oeuvre d’art. La définition de l’art comme organisation du vide met en évidence le virage radical  que Lacan impose à la soi-disant psychanalyse appliquée à l’art, la faisant tourner de façon inusitée en direction d’une psychanalyse impliquée dans l’art. Dans la définition de l’art comme “organisation du vide” (il ne s’agit pas de considérer la création artistique dans son rapport avec le fantasme de l’artiste) mais de saisir ce que l’art peut enseigner à la psychanalyse sur la nature de son objet même. Une esthétique lacanienne implique comme préliminaire nécessaire le dépassement de chaque conception  de la version explicative liée à la pathologie graphique de l’oeuvre et de chaque conception appliquée  de façon réductive de la psychanalyse: une esthétique  lacanienne n’applique pas la psychanalyse à l’art, mais plutôt essaie de penser à l’art comme un enseignement pour la psychanalyse».[6]

[1] J. Lacan, Le Séminaire, Livre VII, L’éthique de la psychanalyse, Paris, Le Seuil, 1986, p. 65.

[2]J. Lacan, Le Séminaire, Livre VII, L’éthique de la psychanalyse, Paris, le Seuil, 1986, p. 169.

[3]  J. Lacan, ibid, p. 155

[4]M. Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, The Symptom online journal of Lacan, 2004, p. 2, 2004. Cit. ibid, Come ha segnalato J.A. Miller il paradigma del godimento che qui è applicato è quello del godimento come al di là del significante, del godimento come, appunto, reale della Cosa, la cui aria, afferma Lacan, risulta “psicamente irrespirabile”. Cfr. J. A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma, 2001

[5]L. P. Finizio, Elogio dell’astrattismo, Mimesis, Milano, 2012, p.11, 40.

[6]  M. Recalcati, ibid, p. 1, 2004