#segno

   Ambrosio Paolo, Solo quando, cm. 80×100 , mixed media on canvas

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        Ambrosio Paolo, anni 1980

Ambrosio Paolo da tempo analizza questo campo specifico prediligendo il suo status etimologico: segno cioè in quanto elemento basilare di una sintassi visiva bidimensionale, segno come embrione linguistico, matrice di un di­scorso possibile di ulteriori infiniti sviluppi. Ambrosio paolo, un po’ come il Kandinsky di “Punto, linea, superficie”; l’analisi quindi e la combinazione di segni diversi, estrapolando dal significante grafico la colorazione psicologica e la capacità, col minimo di elementi consapevolmente impiegati, di suggerire realtà dentro e fuori di noi. Il segno è come un suono, una voce (non a caso le ultime opere spesso s’intitolano “voci”) che richiede al fruitore intensa attenzione per lasciarsi irretire nella magia sospesa che quella voce emana; entrare in sintonia con essa significa poter varcare la soglia dell’ineffabile, abbandonarsi nell’atmosfera rarefatta in cui la voce disegna i suoi percorsi, sollecitando associazioni plurime di pensiero e di sensazioni.

Al segno, ancora sul declino degli anni ’70 Ambrosio ha dedicato un libretto, costellato di citazioni colte (da Barthes ad Adorno, da Wittgenstein a Bense, Foucault…) ed illustrato dai suoi segni, iterati, secchi, energetici, prelinguistici, affabulanti. Sostanziati soprattutto da linee rette, disponibili a sintagmi strutturali, quintessenze di realtà possibili oppure essenze interiori e perciò invisibili di realtà indagate oltre l’apparenza. Una frase di Beckmann, una po­derosa voce dell’espressionismo storico, riportata sul libretto può essere illuminante: “Lei deve trasformare l’impressione ottica del mondo degli oggetti per mezzo dell’aritmetica trascendente che si ritrova nel suo interno”.

I segni campeggiano, a volte è il caso di dire “galleggiano”, su fondali pittorici per lo più dilavati, vibranti e pulsionali quanto secchi e perentori sono i segni, un alveo mobile, cangiante di colore che trattiene l’infinito dello spazio. Non molto tempo fa, tra il ’92 e il ’93, il segno si espandeva a divenire forma (le “Tarsia”, “Suite 14…) al punto da isolarsi nello spazio con un’ascendenza pitto-plastica e una  dichiarata vocazio­ne architettonica (come nel caso di “Tarsia 4). Tale vocazione è emblematicamente contenuta nel libro-oggetto  “Architectural Book” del ’93, fatto di simbolici mattoni di fogli  di carta sovrapposti. Qui il concetto della costruzione architettonica è affidato al suo modulo basilare che è il mattone, in cui si fonde l’altro sistema tipicamente cognitivo che è quello della carta stampata, attinente all ‘ area del libro.

Questo peregrinare da un’area di comunicazione ad un’altra, dalla pittura, alla scultura (anche se certo non in modo tradizionale), al libro-oggetto, denota la flessibilità del codice adottato, anche perché nei passaggi si trat­ta, più che di un cambiamento, di una disponibilità, intrinseca nei segni, alle diverse coniugazioni, ferma restando la ricerca di fondo e le qualità segniche caratterizzanti. Perché il segno, sia nell’irruenza esplosiva all’ Hartung, sia in declinazioni più morbide e controllate è comunque un  principio, un arché che contiene e promette successive metamorfosi, fondamento ineludibile per la visualizzazione delle idee.

Ambrosio raccoglie scarni segnali di natura astratta  per riplasmare un linguaggio che può portare ovunque, riconoscendo nell’analitico balbettio linguistico il momento irriducibile e fondante dei processi di comunicazione e di conoscenza.

Maria Campitelli  1994